"Guarda laggiù. Laggiù c’è il giro perfetto: nessun errore, ogni cambio di marcia, ogni curva... tutto perfetto. Lo vedi? Quasi nessuno ci riesce. La maggior parte non sa nemmeno che c’è, però c’è. È lì”.
È con queste parole, sussurrate con intensità da Ken Miles nel film “Le Mans ’66 - La grande sfida”, che si entra nel cuore di ciò che ogni pilota sogna: toccare la perfezione, anche solo per un istante. Un giro senza sbavature, dove ogni gesto è armonia, ogni curva una pennellata. Il “giro perfetto” non è solo un’espressione di velocità assoluta, ma un evento raro, diremmo spirituale, dove tutto si allinea a creare quasi una sinfonia.
Questo concetto, nato tra le curve di Le Mans, trova una sua autentica reincarnazione sul tracciato del Mugello, una pista che non perdona, ma sa premiare il talento puro. Il Mugello è un luogo che esalta il gesto atletico, tecnico, mentale di un pilota in sella. Ogni curva è un esercizio di stile, ogni discesa in piega un invito, ogni cordolo una sfida da interpretare. E proprio per questo, certi atti lì assumono un significato diverso.
Il ricordo va al 1999, nello specifico a Tetsuya Harada (in copertina), pilota giapponese dal talento cristallino, che sul tracciato toscano teatro del GP d’Italia, compì un’impresa forse dimenticata da molti, ma che resta una pagina di grande motociclismo.
Con la sua Aprilia RSW-2 500, una bicilindrica nata per sfidare le convinzioni, riuscì a disegnare tratti di vera arte sui saliscendi del Mugello e a conquistare la pole position contro moto ben più potenti: le 500 V4 ufficiali, le moto dominanti di quegli anni. Harada fermò il cronometro a 1’52”454, mandando un segnale chiaro a chi pensava che la potenza fosse tutto.
Ma più del numero in sé, ciò che colpiva era la grazia con cui fu costruito quel giro. Non c’era nulla di aggressivo o forzato nella sua guida. Harada sembrava danzare con la moto: sempre composto, fluido, disegnava traiettorie chirurgiche. Ogni curva era trattata come un colpo di pennello su una tela.
Nessun eccesso, nessuna sbavatura. Solo precisione, sensibilità e... coraggio.Moto e pilota parlavano lo stesso linguaggio.
La pole al Mugello non fu solo una questione di tempo, ma di stile. In un’epoca in cui il sibilo delle due tempi era sinfonia e la 500 terra di battaglie feroci, Harada firmò un’opera d’arte inaspettata. Arrivare davanti a chi disponeva di più cavalli e mezzi ufficiali fu come vedere un fioretto sconfiggere una mazza ferrata. Una piccola rivoluzione estetica, ma anche tecnica. Un lampo nel cielo carico di potenza bruta: lì dove tutti spingevano, lui accarezzava.
In gara, Harada chiuse quarto, a meno di un secondo dal podio conquistato da Tadayuki Okada con la NSR 500 (vittoria ad Alex Crivillé con l’altra NSR, secondo Max Biaggi con la Yamaha YZR). Ma non fu una sconfitta. Non poteva esserlo. Quel sabato di qualifiche, Harada aveva toccato ciò che Ken Miles descriveva nel film come “il giro perfetto”. Aveva fatto danzare una bicilindrica contro le regine della velocità.
Oggi, pensando a quel crono, viene da sorridere: le MotoGP volano in 1’44”, le Moto3 girano in 1’54”. I tempi cambiano, la tecnologia corre. Ma la bellezza di quell’istante resta intatta. Perché la perfezione non si misura solo col cronometro, né si limita alla potenza o al risultato. C’è stato qualcosa di più. Un momento limpido, irripetibile. Qualcosa che non si spiega. Semplicemente si ricorda.
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